lunedì 3 giugno 2013

L' uscita dall'euro non è più un tabù

Euro, dieci buoni motivi per uscire dalla moneta unica -2 giugno 2013 di ScenariEconomici Feed


Segnaliamo, quest’articolo comparso su Libero a firma di Francesco De Dominicis.
Il pezzo è interessante seppur con alcune imprecisioni (impatto spread a 500 esagerato, tasso 0,75% quando è 0,5%); da apprezzare, oltre ai contenuti, l’approccio moderato atto a favorire un dibattito reale.

Il rischio è quello di scivolare nella demagogia. Ora che va tutto male, che l’Italia è sull’orlo del baratro – indietro di 25 anni, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco – e che l’economia è agonizzante, è fin troppo facile puntare il dito contro la moneta unica. Fatto sta che da semplice slogan utile per le campagne elettorali, l’idea di «uscire dall’euro» è entrata prepotentemente nei dibattiti. Non solo fra politici, ma anche tra accademici ed economisti di primo livello da mesi si discute di questa ipotesi.

Ma per cercare di capire il fallimento dell’euro servono anzitutto i numeri. Quelli semplici. I dati relativi all’Italia – e non solo – non sembrano lasciar spazio a dubbi. Sono almeno dieci gli indicatori che fanno propendere la bilancia dalla parte di chi «tifa» per tornare alla lira. Esportazioni, pil, lavoro, stipendi, potere d’acquisto e inflazione, consumi, credito, fallimenti delle imprese, debito pubblico, spread: ecco una breve rassegna, che non vuol essere l’ennesimo «manuale per gli anti euro» ma l’inizio di un dibattito.

Esportazioni – I fan della lira fanno leva sull’export. La svalutazione della valuta, del resto, è l’arma principale in mano a uno stato che gestisce la politica monetaria. La regia della moneta unica, dal 1999, è stata trasferita a Francoforte: decide la Bce e non più la Banca d’Italia. Con la lira, via Nazionale poteva abbassare il cambio e favorire, appunto, le esportazioni. E in un Paese (in passato) in cui l’industria manifatturiera aveva un peso rilevante, la politica monetaria ha certamente potuto agevolare gli acquisti da parte degli stranieri. Il nostro export continua a crescere, ma la bilancia commerciale (differenza tra esportazioni e importazioni) è negativa, mentre prima dell’euro il saldo era positivo. Percorso inverso per la Germania. Che con la moneta unica ha fatto bingo.

Pil in caduta libera – La doppia recessione ha tagliato le gambe all’Italia che con l’euro non ha mai viaggiato ad alta velocità. Una spirale negativa che ha prodotto un prodotto interno lordo 2012 del 7% inferiore a 5 anni fa.

Senza lavoro oltre 3 milioni – Il lavoro è il dramma dell’Italia. Gli ultimi dati Istat parlano di un aumento della disoccupazione al 12% (oltre 3,3 milioni di persone non lavorano). Percentuale che nel 2012 tra i giovani è al 35,3%: peggior dato dal 1977.

Stipendi inchiodati – L’euro non smuove le retribuzioni che sembrano inchiodate: nel 2012 c’è stata una crescita lievissima (+1,9%), più bassa del caro-vita (+3%).

Potere d’acquisto e inflazione – Con le retribuzioni ferme, le famiglie fanno i conti con l’inflazione che, pur crescendo poco, ha comunque «mangiato» il reddito disponibile, nel 2012 giù del 9%.

Consumi come con la lira – Indietro di 15 anni. Un balzo al 1998, quello registrato per la spesa delle famiglie italiane. Nel 2012, i consumi in Italia sono tornati ai livelli della lira. Secondo i dati di Bankitalia, dopo aver ristagnato nella media del triennio precedente, la spesa delle famiglie si è fortemente ridotta (-4,3%) l’anno scorso e in termini pro capite è tornata, appunto, attorno ai valori del 1998.

Credito strozzato – Il problema dei prestiti bancari non trova soluzioni. Il costo del denaro prossimo allo «zero» fissato dalla Bce (0,75%) non aiuta gli istituti. I finanziamenti alle imprese (assai più cari della media europea) hanno rallentato nettamente nella seconda parte del 2011 e si sono contratti di circa 60 miliardi dall’inizio di dicembre dello stesso anno fino a dicembre 2012. E il calo nei primi quattro mesi di quest’anno si è di nuovo accentuato, avvicinandosi al 4% annuo.

Boom di fallimenti – Gioco forza, con la ripresa che non si vede, i consumi asfittici e il credit crunch in aumento, le imprese continuano a fallire. Trend negativo da anni, ma negli ultimi mesi c’è stato un record: 3.500 nel primo trimestre 2013 con un più 12% sul 2012.

Debito: in 13 anni +800 mld – Attorno al «buco» nei conti dello Stato si contrappongono tesi opposte. Da una parte chi sostiene che con l’euro si sono risparmiati circa 700 miliardi di euro di spesa per interessi (grazie allo spread basso, specie fino al 2011); dall’altra chi mette in risalto la sola crescita della voragine: da poco più di 1.200 miliardi del 1999 agli oltre 2mila miliardi di oggi: 800 miliardi in più in 13 anni.

Spread fuori controllo – Con la crisi è caduto il mito del divario contenuto tra interessi pagati da Italia e Germania sui titoli pubblici. Il differenziale oggi viaggia attorno ai 260 punti, ma all’apice della crisi ha sfondato il tetto dei 500 punti, facendo salire di decine di miliardi di euro la spesa per interessi a carico del bilancio statale. Problema risolvibile dando più poteri all’Eurotower, facendo diventare la Banca centrale europea un «prestatore di ultima istanza». Per aprire il portafoglio e comprare direttamente bond pubblici. La Bce ha le mani legate e a brindare sono le banche d’affari che speculano sui debiti pubblici.

Percorso a ostacoli – L’idea di «uscire dall’euro» oggi fa discutere l’Italia, ma nel 2012 è sembrata più volte la soluzione per la crisi della Grecia. Senza dimenticare che negli scorsi anni, Francia e Germania avevano ventilato l’idea di un euro a due velocità: una moneta forte per il centro Europa, una debole per i paesi periferici. Sta di fatto che dire addio alla moneta unica non è proprio una passeggiata. Sia da un punto di vista della procedure sia per le incognite che si aprirebbero proprio in relazione agli effetti sull’economia. Il ritorno alla lira (o l’introduzione di una nuova valuta) imporrebbe a ciascun Paese l’abbandono dell’Unione europea. Il che vuol dire modifica dei trattati internazionali e unanimità dei 27 paesi membri. Una missione all’apparenza impossibile. Di qui il «piano B» volto ad allineare le politiche fiscali in modo da azzerare gli squilibri fra i vari paesi. Ma questa è un’altra storia.

articolo postato da Andrea Lenci (@andrealenci)

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